Katya si rifà viva L'incontro con Manuela e la giovane perfida fu umiliante. Mentre con Katya, bella, ammaliatrice, atletica, e con degli addominali scioccanti, potevo avere una giustificazione al mio cedimento, con le due ultime ospiti non c'era alibi alcuno. Manuela non mi attirava affatto; anche la sua giovane amica non aveva fascino né destava interesse ai miei occhi, eppure... La pura e semplice loro volontà di volersi imporre a me, ferendomi e piegandomi, era bastata. Si erano sentite più forti di me. Manuela mi era sembrata senz'altro forte fisicamente, forse più di me; la giovane sfidante non lo era probabilmente, ma questo non importava: lei aveva cominciato a sentirsi sicura e spavalda. La sua forza mentale, sostenuta da Manuela, che sapeva di me e Katya, l'aveva rinvigorita anche fisicamente. Ed io senza ritegno avevo finito per subìre anche il loro dominio, dopo la lezione rivelatrice di Katya. Potevo fare qualcosa per neutralizzare questa pericolosa e ambigua debolezza? Non volevo rinunciare ad avere una mia rassicurante immagine di normalità. Non potevo inventarmi un'altra identità pubblica e un'altra vita. Non potevo convivere con l'altrui convinzione che io fossi un pervertito. Forse lo ero per davvero. Inizialmente avrei respinto una simile immagine: debole sì, ma non pervertito. Dopo l'ultimo incontro, però, cominciavo a pensare che qualcosa di perverso e di negativo in me ci fosse davvero. Dovevo reagire. Iniziai a dedicare tempo, quanto più potessi, ad allenarmi con pesi e attrezzi. In palestra e a casa. Qualche risultato cominciai anche a vederlo. Questo sembrava ricostruire in me la fiducia e la sicurezza. Eppure qualcosa non andava. Non riuscivo a fare molti progressi nelle fasce addominali. L'immagine degli addominali di Katya continuava ad apparire ai miei occhi, facendomi provare un vago senso di umiliazione. La cosa mi faceva rabbia anche perché si accompagnava ad una specie di languore e di rispetto. Nonostante tutto continuavo a provare ris ammirazione ed attrazione per Katya. Lei era senz'altro una creatura superiore, aveva doti straordinarie. Era una vincente. Lei sì. Solo lei. Però dovevo migliorare. D'accordo, non ero al suo livello, ma dovevo superarmi. E dovevo controllare le mie pulsioni e le mie debolezze. Rispetto sì, ma non sottomissione. Nel frattempo, avevo ricominciato ad uscire fuori dal nascondiglio di casa mia, evitando di percorrere di corsa e a capo chino gli spazi condominiali. Una volta intravvidi anche Manuela per strada. Lei non si accorse di me. Ma mi fece star meglio la sensazione che ebbi di disprezzo nei suoi confronti. Arrivò però la prova della verità. Occasionalmente. Ineluttabilmente. Un giorni mi accorsi per caso che un pieghevole pubblicitario che avevo trovato nella cassetta della posta e avevo accantonato, dopo una fuggevole occhiata, tra giornali e riviste, conteneva una busta rosa. Era stato il caso a farmela scoprire, facendola cadere ai miei piedi mentre raccoglievo tutta quella carta per gettarla. La presi e subito un tuffo al cuore: era di Katya e, cazzo!, mi era precipitato il cuore in gola nel leggere quel nome. Cazzo, cazzo! Non ero ancora libero da quella ossessione. E adesso? Dopo un po’ mi decisi ad aprirla. Due righe: "Scusa. Ho esagerato. Se vuoi perdonarmi, chiamami. K.". Erano passate diverse settimane dal giorno del mio incontro con Katya, ma il ricordo era ancora vivo. Dovevo cercarla? Ero già guarito, psicologicamente? Forse no, ma dovevo sottopormi a questa prova. La chiamai. "Ciao...mi riconosci?" "Oh, sei tu? Finalmente. Allora è stato così grave?...Senti, se ti va, possiamo vederci....Passo io?" "Senti Katya, prima o poi ci saremmo comunque visti, ma non so se è una buona idea. Io non ho dimenticato che..." "Senti, hai ragione, ma possiamo parlarne in un modo diverso. Forse possiamo capirci meglio". "Non lo so...non vorrei avere altre sorprese". "Ma dai...Senti, adesso arrivo". "No, aspetta..." "Sto arrivando". Katya! Il cuore non aveva ancora attenuato la forza dei suoi battiti che Katya era dietro la porta. Aprii tutto vibrante: era splendida! Viso dolce e regolare, sano e con le guance ravvivate dalla corsa che doveva aver fatto per arrivare così presto da me; occhi a mandorla brillanti; collo esile; corpo ben modellato: seni non vistosi ma pieni, vita stretta, fianchi sodi, gambe affusolate e tornite, come le braccia. Questa volta aveva una gonna che le faceva risaltare la pienezza dei fianchi e la solida asciuttezza di ginocchia e caviglie; un giacchino sopra una maglia dalla tinta pastellata. E calzava delle scarpe nere e lucide, con un tacco di almeno 12 cm. Abbagliante. Torreggiante: la stavo ricevendo in pantofole. Ancora più del primo incontro mi superava nettamente in altezza. Non riuscii a parlare. Lei colse immediatamente il mio imbarazzo, con un sorriso furbo, e mi lasciò all'ingresso, entrando decisamente e fieramente nella stanza. Voltandomi ancora stupìto a guardarla non potei fare a meno di notarle dei glutei meravigliosi, insospettabilmente floridi e pieni: dov'erano nascosti prima? Scioccante. Si voltò all'improvviso e si accorse che stavo ammirando i suoi glutei. Ancora una volta sorrise, guardandomi negli occhi con uno sguardo penetrante: "Piace anche il te?" "Come?" "Ti piace... lui?" Accennando inequivocabilmente al suo fondoschiena. Arrossii senza riuscire a replicare. "Non sei il primo. Il mio primo ragazzo era un maniaco, voleva solo quello. Non ne potevo più. Lo lasciai. Ma anche con l'altro, il poliziotto bastardo, fu per il mio culo che ci lasciammo. Anche a lui piaceva, ma lo voleva così com'è ora: sodo e tornito come quello di una pattinatrice, diceva il bastardo. Fu lui a spingermi in palestra. Poi però pretendeva di dirmi come dovevo allenarmi e cosa dovevo evitare. Non sopportava che sollevassi pesi. Temeva che diventassi forte come lui, anzi più di lui; si sentiva potente ma non era un gran che. Sapeva solo parlare e fare il prepotente. Il bastardo. Sai cosa ha fatto? Andava con i viados! Adesso basta con queste storie. Parliamo di te". Mentre parlava, si era ancor più accalorata; andava su e giù: era magnifica. Si levò il giacchino e si appoggiò al muro. La maglia aderente metteva in mostra la splendida linea sinuosa del suo corpo. Incrociò le braccia e mi guardò con uno sguardo interrogativo. "Però anche tu non sei normale. Secondo me se ti presentassi un mio amico, potreste fare scintille assieme. Attento, però, lui pensa solo a fare culi!" La frase cruda e volgare mi fece rianimare. "Katya, non puoi parlare così. Adesso basta. Lo dico con franchezza: hai un corpo stupendo. Hai un corpo dolce e forte, come il tuo viso. C'è qualcosa di strano se mi sono lasciato andare? E poi lo sai come è andata; hai voluto giocare con me; hai voluto esaltarti facendo la dominatrice. E sei riuscita perfettamente ad attirarmi nella trappola. E poi non sono un gay. A me non piacciono gli uomini. E i transessuali mi fanno schifo. Basta ora!" Katya mi guardava con un sguardo scettico e vagamente materno. "Non devi fare il bambino capriccioso. Potrei punirti". Disse, muovendosi verso di me. Man mano che avanzava la vedevo diventare sempre più alta e forte. Si fermò proprio davanti a me. Io rinunciai a guardarla negli occhi, tenendo lo sguardo basso. Lei non parlava. Io neppure. Temevo un suo gesto improvviso, come lo schiaffo dell'altro incontro. Ma lei non muoveva un muscolo. Non riuscii a portare oltre la mia rigida resistenza e alzai lo sguardo. Vidi occhi dolci e pietosi. Era come se aspettasse che io rinunciassi a opporle resistenza e mi piegassi docile ai suoi voleri. Ma continuai a resistere, pur cominciando a vacillare. Istintivamente le afferrai i polsi. Lei cercò di liberarsi dalla mia presa. Non so come, se per il lavoro in palestra che avevo fatto o la forza della disperazione, riuscii a resistere e continuai a tenerla. Ma a questo punto, mentre ancora avevo negli occhi quello sguardo pietoso, mi arrivò uno strano colpo sotto l'inguine. Una ginocchiata. E ancora una volta un dolore amaro e lancinante. Mi avevo preso in pieno ventre. Caddi in ginocchio. Lei restò in piedi. "Katya...non puoi...non te lo permetto". Riuscii a protestare, con un tono deciso. La mia resistenza, seppur incerta, riuscì a colpirla. "Va bene, va bene. Questa volta sarai tu a farlo." Disse. Cosa? Lo scoprii solo dopo che lei, gentilmente e dolcemente, mi aiutò a sollevarmi. Dopo avermi lanciato un'occhiata complice, sempre guardandomi dall'alto, si voltò dandomi la schiena. Poi, restando vicinissima, strofinò i suoi glutei contro la patta dei miei pantaloni, piegandosi per quel che serviva. Non riuscii a controllare le reazioni del mio pene, che subito cominciò ad irrigidirsi. Come se non bastasse, poi, lei mi prese le mani e le infilò dolcemente sotto la sua maglia: sui suoi addominali. L'effetto fu travolgente. I suoi addominali erano uno strumento di eccitazione per me irresistibile. Anche perché lei con arte accompagnava le mie dita sui solchi che separavano i suoi muscoli. Aveva degli addominali perfetti. Dopo un po’ anche lei cominciò ad eccitarsi. Le sue mani lasciarono le mie e subito portarono la sua gonna e i suoi slip ai nostri piedi. Dopo, aiutò un pene rosso e gonfio per l'eccitazione ad entrare nel suo ano. Non ci fu bisogno di forzare né di lubrificare l'entrata: il mio pene, di dimensioni normali, mi sembrò improvvisamente piccolo. Mi passò un pensiero frustrante: ero stato preceduto da altri. Da altri sicuramente superdotati. Aveva accolto tanti grossi membri quell'ano. La cosa però non sembrò irritare o deludere Katya: con improvvise e potenti contrazioni muscolari stringeva la sua cavità tanto da renderla quasi stretta. Inutile dire che non ci volle molto perché esplodessi al suo interno, schizzando il mio sperma fino nei più reconditi recessi del suo corpo, vibrando e gemendo come un ossesso. Un orgasmo da brividi, che Katya accolse con un leggero accenno di compiacimento. Lei, però, continuava a tenermi quasi prigioniero il pene, stringendolo con la spinta dei suoi glutei. Capii che ero stato veloce, troppo. Che non ero io a spingere, ma lei a sbattere e stringere il mio pene. Che il mio assalto al suo ano non era neanche lontanamente paragonabile al modo in cui lei mi avevo penetrato l'altro volta, con un arnese che ancora non avevo capito cosa fosse. Lei aveva usato una violenza e un impeto quasi selvaggi, cinici. L'arnese che aveva usato, la protesi della sua volontà di dominarmi, rimanendo rigida e ferma, l'aveva assecondata perfettamente. Mentre il mio membro, quasi a mia immagine, tendeva fatalmente a ritrarsi e a indebolirsi. Anche questa volta, pur essendo io il "maschio", mi accorgevo di essere il partner debole. Era lei a vincere e dominare. E a cercare il suo piacere. Mentre con una mano spingeva le mie mani, che erano rimaste ad adorare i suoi addominali, contro il suo corpo scultoreo, con l'altra si sollecitava il clitoride. E continuava a sbattere quelle natiche di pietra contro il mio addome già dolorante, strangolandomi il pene. Quando lei volle, ma non prima di aver goduto, allentò la presa. Ero esausto. Anche le cosce mi dolevano. Era stata una prova atletica, una prova di forza anche quella. Ed ero stato sconfitto anche questa volta. Si voltò, mi guardò, ergendosi in tutto il suo splendore, mi mise una mano sotto il mento, indirizzando la mia bocca verso una delle sue guance. Mi stava guidando a darle un bacio sul viso, come un ragazzino. E come un ragazzino, fui costretto a rizzarmi sulle punta dei piedi per riuscire a raggiungere la sua guancia. Le baciai il viso, docilmente. La amavo? virdiana@virgilio.it