Katya Una debolezza nascosta smascherata è sempre fonte di disagi, umiliazioni e soprusi. E’ raro incontrare persone che, sia pure senza volerne trarre vantaggi personali, non ne approffittino in qualche modo. E’ quello che mi successe dopo il gorgo creato da Katya. Per una serie di buoni motivi cercai scrupolosamente di evitare di imbattermi in Katya, dopo quello che era successo. Ma non potevo sottrarmi ai tentativi di contatto provenienti da coloro che avevano condiviso quella esperienza, sia pure indirettamente. Purtroppo, e come era prevedibile, Manuela ruppe gli indugi. Quando la vidi dallo spioncino della porta mi precipitò in cuore in gola. Cosa vuole da me, questa? Pensai. Aprii la porta solo dopo aver assicurato il gancio che mi avrebbe potuto proteggere contro un’azione di forza da parte di quella donna senza fascino alcuno ai miei occhi. “Sono passata per accertarmi delle tue condizioni. Come va? Posso entrare?” “Ti manda Katya?”. “Oh Katya…No, no. E’ una mia iniziativa. Sono pur sempre un medico.” Colsi un tono insolitamente professionale nella sua voce. Questo mi tranquillizzò. Sospettavo che lei volesse continuare a prendersi gioco, ruvidamente e con insopportabile tracotanza, di me. “Io non ti ho chiamata. E poi non ho intenzione di tollerare la tua, diciamo, esuberanza”. Lì per lì non me ne resi conto, ma avevo detto delle parole sbagliate. Lei sorrise alla mia frase, e acquistò un tono più confidenziale. “Dai, non fare storie. Devo fare un controllo medico. Non ti allarmare. E poi sono accompagnata, non vedi?”. Non me ne ero accorto prima, ma era effettivamente accompagnata: una ragazza sotto i vent’anni, forse minorenne. Mi sembrava di averla già vista, ma non aveva nulla che potesse richiamare l’attenzione. Era una ragazza un po’ goffa e appesantita. Con uno sguardo basso e vagamente trasognato. Tratti anonimi, capelli castano chiari lunghi, ma non molto curati. Un po’ più alta di Manuela, ma più bassa di me. Tolsi il gancio e aprii. Un errore imperdonabile. Cercai comunque di essere ospitale. In fondo ero a casa mia; non poteva succedere nulla di spiacevole. E poi aspettavo visite. Un’amica e collega avrebbe dovuto raggiungermi per una ricerca di informazioni in rete. Cercai di guadagnare sicurezza, pur avvertendo un sottile disagio. “Se vuoi, puoi lasciarmi dei medicinali. Ma non ho intenzione di sottopormi ad alcuna visita da parte tua, anche se sei un medico. Ti pregherei, poi, di mantenere un minimo di riservatezza. Da medico, dovresti saperlo”. “Certo, certo. Se non ti va di farti guardare, fai pure. Non te lo consiglio, però. Se fossi in te, starei attento a certe cose. Te lo dico per esperienza?” “Esperienza? Quale esperienza?”, il disagio aumentava. Un sorrisetto fosco e obliquo fu la sua risposta. La ragazza al suo fianco lo colse. Sapeva? “A proposito, ti presento Alessia. E’ una mia nipote. Vuole studiare medicina anche lei”. Le porsi la mano. Lei la strinse con decisione. Ma la sua stretta non mi colpì più di tanto. Di certo non salutava con una mano esangue, ma nulla di più. Notai, però, dei seni pesanti e ballonzolanti. Lei non parlava. “Scusa, sai, è un po’ complessata”, intervenne Manuela. “Cioè? Cosa c’è che non va?”. Non capivo a cosa si riferisse. Non mi sembrava particolarmente insolito il fatto che non avesse pronunciato formule di saluto. Neanche io, del resto, l’avevo fatto. Alessia, comunque, arrossì. “Lei si crede un brutto anatroccolo. Pensa che nessuno la degnerà di attenzione. Si vergogna anche della sua voce”. “Dai, zia”, disse, imbarazzata, Alessia. La sua voce? In effetti, aveva una tono di voce basso e roco, e parlava molto lentamente. Un po’ sgraziato, ma non sgradevole, anzi. Prima che potessi pronunciare qualche frase di circostanza, Manuela continuò: “Ma vedrai che miglioramenti avrai”, guardandola, e poi guardando me: “Si sta allenando duramente”, disse con uno strano sguardo di complicità. Scioccamente, arrossii. Sicuramente loro lo notarono. Quando finirà questa storia? Pensai. Eppure, cominciò a prendermi un certo maledetto languore. Cercai di sottrarmi al loro sguardo, inutilmente. “Se continua così, farà i progressi di Katya. Anzi, di più. Ha una struttura ossea e muscolare molto promettente. Sono convinta che tu, da “esperto”, lo avrai già notato”. “Cosa dovrei aver notato. Ti prego di cambiare argomento”, cercai disperatamente di troncare quella pericolosa conversazione. “Dai, non fare finta. Ti piacciono le donne atletiche. E poi, che cosa c’è di male. A tutti piacciono i corpi sani e muscolosi. Non è per niente strano che anche agli uomini piacciano le donne forti e palestrate. Alessia è ancora agli inizi, però è già molto forte. Vuoi vedere?”. La ragazza, docilmente ma con molta sicurezza, aggiunse: “Non ti farò molto male”! Come si permetteva? A che gioco stavano giocando? Non potevano irridermi in quel modo. E poi non mi andava nessuna stupida prova di forza con quella ragazza sconociuta ed insignificante. Forse per lei era divertente; per me non lo era affatto. La mia parte razionale pensava, o voleva pensare questo. Ma il mio lato oscuro, sgravato dalla “educazione” impostami da Katya da ogni pietosa ipocrisia, mi spingeva inesorabilmente verso quella assurda situazione. Guardai Alessia: il suo sguardo si stava illuminando. Sembrava veramente eccitata ed impaziente di cominciare quel test. Guardai anche Manuela: stava riacquistando quella odiosa sensazione di complicità viziosa e beffarda. “Dai!”, mi incoraggiò. Non so come e perché avvenne, ma ci ritrovammo seduti al tavolo, io e Alessia, a fronteggiarci in quella imbarazzante ma sempre più coinvolgente sfida. Purtroppo per me, Alessia era allieva già valente di una maestra perfida. Appena strinse la mia mano destra, la sua mosse improvvisamente e violentemente verso il piano del tavolo, sbattendomela dolorosamente. Poi, la riportò su e spinse ancora in giù. Due colpi cattivi e crudeli. Fui colto alla sprovvista. La rabbia e il dolore mi stordirono. Come uno sciocco ero caduto nella rete. Non mi ero ancora preparato a dover usare la mia forza contro quella ragazzina, che ero già lì a stringermi quel che restava della mia mano agonizzante, ancora stretta dalla sua. “Che cazzo fai?”, esclamai rabbioso. Lei mi guardava, stringendo ancora la mia mano. Il suo respiro ampio e profondo esprimeva la sua soddisfazione e sicurezza. Anche lei, come già Katya, inesorabilmente e crudamente cominciava a gustare una sensazione inebriante, forse nuova, di potere. Una ulteriore stretta alla mia mano già dolorante fu il segnale con cui mi invitò a guardarla. “Non parlare in questo modo”, mi rimproverò. Manuela intervenne eccitata e orgogliosa: “Lo sapevo che ti avrebbe battuto. Lo ha fatto senza trucchi. Non ti puoi lamentare di niente”. Baciò sui capelli la davvero promettente nipote, che continuava a stringermi la mano e a cercare di addomesticarmi con lo sguardo. Pur incazzato per quella stupido trucco e per la mia dabbenaggine, sentii il messaggio. D’accordo, anche lei stava cercando di sottomettermi alla sua volontà ferma e cinica di potenza. Non provavo alcun trasporto per lei, ma quel messaggio lo avevo sentito. Speravo solo che finisse al più presto quel tormento. “Ti prego, mi lasci la mano? Mi fa male”, implorai, con mansuetudine. Lei non mollava la stretta. “Ti prego. Riconosco che sei molto forte e che hai vinto lealmente”. Lei mollò. Quel silenzio persistente e quello sguardo deciso erano senz’altro sorprendenti per la sua età. Quella ragazza sapeva il fatto suo. “Adesso con l’altra mano. Così non ci saranno dubbi”, la decisa proposta di Manuela era inevitabile. Cercai di spiegare che avevo una mano che mi faceva un male boia. Ma non potei sottrarmi. Ormai ero avviato a chiudere al più presto quella nuova umiliante discesa nelle mie debolezze. Lo sapevo che avrei perso. Non solo non ero mancino e avevo una mano, la destra, che mi scoppiava, ma avevo capito che mi fronteggiava qualcuno che non aveva riguardi e pietà per me, attraversato da una scarica di adrenalina e di vigore trionfante. Forse Alessia non era fisicamente più forte di me. Imparata la lezione, non mi lasciai sorprendere e cercai di riversare la mia forza contro quella mano di ragazzina cresciuta un po’ troppo. Le nostre mani si fronteggiarono in una posizione di stallo. Io, pur indebolito, cercavo di spingere, ma non riuscivo a fare molti progressi. Anche lei, però, non avanzava limitandosi a contenere il mio attacco. Continuava a stare in silenzio, sicuramente stava facendo uno sforzo notevole, ma senza darlo a vedere. Manteneva calma e fiducia, fissandomi con uno sguardo quasi perso. Manuela, osservando attentamente la scena, prese a girare attorno al tavolo. Scese un silenzio irreale. Ma qualcosa, furtivamente e inesorabilmente, si impossessò dei presenti. Si impossessò di me, soprattutto. Non so se fosse stato voluto, ma il silenzio calmo e potente di Alessia, e quel movimento circolare di Manuela, crearono una specie di vortice intorno a me, una strana sensazione di nauseante melassa che mi avvolgeva. Non voglio cercare alibi, ma di sicuro cominciai a perdere forza e vigore. La mia mano cominciò ad avvicinarsi al tavolo. Cercai di non guardare quella diabolica ragazzina, ma il suo sguardo mi perseguitava. Quando già sentivo vicino al dorso della mano il piano freddo del tavolo, la pressione esercitata dalla mano di Alessia diminuì improvvisamente, per poi montare altrettanto rapidamente. Di nuovo un terribile, doloroso colpo sul tavolo, e poi un altro. Non c’erano più dubbi, la timida e goffa nipotina di Manuela era una maledetta piccola strega. Il suo scopo era di provocarmi sofferenza fisica, in un modo violento e amaro. Anche questa volta non mollò la mia mano. La sua indiscutibile gioia per la doppia impresa era adulta, quasi repressa. Quell’essere cominciò a farmi veramente paura. Anche questa volta fui costretto ad implorarla, senza indugi e senza ritegno. Sentivo le lacrime agli occhi. Lacrime di dolore e di sottomissione. Non mi piaceva quello stato mentale, ma aveva una sua logica ineluttabile e devastante. Neanche per un attimo provai eccitazione fisica durante quella prova di forza e di abilità con la giovane donna. Non fino a quando la perversa ragazzina si alzò dal tavolo, allentando la presa della mia mano, ma continuando a tenerla, guidandomi a fare altrettanto, e mi prese entrambi i polsi con le sue mani rinvigorite dalla vittoria. Tenuto per i polsi, costretto a guardare quel viso impassibile che stava acquistando una sua bellezza lucida e algida, sentii vergognosamente salire l’eccitazione dentro di me. Cominciava a sembrarmi bella, affascinante. Una giovane donna sicura e forte. Già pronta a conquistare e sottomettere. Lei forzò i polsi, costringendomi a piegarmi verso il suo seno abbondante, quasi materno. Mentre continuava ad obbligarmi a fissare il suo viso, ora molto più in alto del mio e su cui si stava disegnando un’indefinita espressione di broncio misto a sofferenza, vagamente interrogativa, cominciai a fremere senza pudore. Ma lei non andò oltre. Non volle, e non volle concedermi, altro. Alle mie spalle giunse, come se tutto fosse stato già previsto, Manuela, rapida e silenziosa. “Ora lo puoi lasciare. Non vedi come sei riuscito a ridurlo. Ormai è tuo”, sussurrò al mio orecchio, guardando la nipote. “Ormai sei suo”, continuò, rivolgendosi a me questa volta. “Tu sai, come lo sa lei ed io, che di fronte a lei e me non hai maschere. Se lei volesse, ora potrebbe farti e costringerti a fare tutto. Ma non è questo il momento”. Mentre pronunciava, quasi sibilandole, queste dolorose parole, accostò il suo corpo al mio, fremente e incurvato dalla stretta di Alessia, muovendo i fianchi diede qualche spinta decisa con il suo ventre forte e compatto contro il mio fondoschiena, facendomi sbattere contro i grossi seni di Alessia, mentre le sue mani mi attraversavano l’addome, giù sino alla patta dei pantaloni. Poi, mentre Alessia mi liberava, mi voltò rapidamente costringendomi a fissare il suo viso, beffardo e odioso. “Non è vero?”, mi interrogò, mentre allacciava le sue braccia dietro la mia schiena, cominciando a sollevarmi, ripetutamente. “Non è vero, piccolo?”, insistette, accorgendosi della pressione del mio eccitato pene contro il suo corpo robusto. Colmo di vergogna, lo ammisi: aveva ragione. Fatto ancora più umiliante per me, in quel momento avrei desiderato che Alessia continuasse a soggiogarmi, regalandomi infine il piacere che il mio pene cominciava a reclamare. Ma così non fu. Alessia era ormai già distante, con la testa, mentre terminava di assaporare forse solo a metà, e in modo del tutto cerebrale e interiore, il gusto elettrizzante e nuovo per lei di quell’esperienza di dominio fisico e mentale. Credo che in quei momenti non riuscisse ancora ad interpretare le sensazioni ambigue, complesse e torbide che procurava. Non posso credere che anche lei, pur non ancora una donna matura, non provasse eccitazione sessuale. Ma evidentemente faticava ad accettarla, forse sorpresa da quanto le stava accadendo. Infine Manuela mi lasciò andare, seccamente. Prese per la mano Alessia, persa nei suoi pensieri, e, lentamente, uscì dalla stanza. Segue. Virdiana@virgilio.it